L’evoluzione delle tecniche di scavo sul Complesso Monti San Giorgio, Orsa e Pravello nella storia recente

di Sergio Pezzoli

 

Premessa

Dagli anni 70’ le metodiche di scavo paleontologico sui giacimenti triassici del complesso San Giorgio, Orsa e Pravello, sono state soggette a forti modifiche, intervenute un po’ per l’evoluzione della consapevolezza dei possibili reperti rinvenibili, un po’ per i diversi intenti da perseguire, nettamente cambiati con il passare del tempo.
Questi cambiamenti possono essere evidenziati osservando la scelta della località di scavo, l’attrezzatura impiegata e le tecniche adottate.


La conformazione dello scavo

Di regola è difficile che il rinvenimento di materiale paleontologico scaturisca direttamente da un’indagine scientifica poichè, per indole umana, le prospezioni terrestri avvengono a scopo produttivo. Per meglio comprendere il dato, possiamo pensare all’intensa attività mineraria che si è susseguita per lo sfruttamento industriale degli scisti bituminosi sui Monti San Giorgio (CH) e Pravello (IT) di cui stiamo parlando o, estendendo lo sguardo a siti più lontani ma ugualmente noti, all’estrazione dei calcari litografici di Solnhofen (D). Per questo motivo, al fine di cominciare un’attività di ricerca paleontologica, la prima indagine da fare è quella storica e se si ha la fortuna di avere a che fare con un sito di valore storico ultracentenario come quello del complesso San Giorgio-Orsa-Pravello, è fondamentale condurre una ricerca bibliografica approfondita.

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Naturalmente un riscontro pratico sul campo per verificare quanto studiato è imprescindibile poiché spesso, le informazioni raccolte, possono risultare frammentarie o anacronistiche. Attività di scavo paleontologico vero e proprio sono solo successive a quelle indagini sul campo che costituiscono, nel loro insieme, la fase di sondaggio preliminare. È qui interessante valutare l’apporto che può essere dato da appassionati e conoscitori del territorio. Spesso, le risorse che offrono i paleontofili dopo anni di osservazioni e studi privati, sono sottovalutate; infatti non è inusuale che questi ultimi abbiano una conoscenza degli affioramenti superiore a quella del geologo o del paleontologo professionista. Sul San Giorgio, è noto come appassionati locali siano sempre stati fondamentali nelle attività di ricerca per il particolare legame con la montagna e con la pietra che li ha sempre contraddistinti. Sul versante italiano possiamo citare a livello storico gli abitanti di Cà del Monte da sempre impegnati nelle campagne di scavo elvetiche e, per arrivare ai giorni nostri, alcuni besanesi tra cui il compianto Claudio Del Prato.

Primi assaggi possono essere effettuati semplicemente osservando il materiale franato o il materiale di discarica proveniente dalle attività di tipo industriale (es. discariche di cave e miniere estrattive). È intuitivo comprendere come in attività non dedicate alla ricerca scientifica, il materiale di scarto della produzione spesso sia di gran valore per gli interessi degli studiosi. La gran quantità di materiale scartato è inoltre di semplice movimentazione e capita non necessiti neppure di ulteriori lavorazioni per la repertazione dei fossili che contiene.

Il secondo step consiste nel comprendere da dove, all’interno del pacco di sedimenti indagato sommariamente, provengano i reperti. Questo può essere fatto con una più attenta analisi stratigrafica o con dei piccoli assaggi. Raramente le carte geologiche hanno un livello di precisione sufficiente per indicare con esattezza tutti gli affioramenti presenti; la precisa correlazione tra un blocco di roccia recuperato da una discarica mineraria e l’esatto strato in loco da cui proviene, pertanto è un lavoro arduo e complesso nonché soggetto a molti errori.

 

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Prime attività di scavo negli affioramenti di Scheltrich

 

Ad esempio, recentemente, il nuovo livello di Scheltrich è emerso solo dopo un casuale rinvenimento di un campione interessante durante una fase di sondaggio, in una parte buia e scoscesa del bosco. E solo dopo diverso tempo si è riusciti a trovare un livello, in realtà molto limitato, mai indagato prima.

A questo punto è necessario procedere con indagini volte a determinare con più di attendibilità la densità e la qualità dei reperti rinvenuti nella fase precedente. Si realizzerà dunque un piccolo scavo che affronti direttamente solo gli strati più facilmente raggiungibili, in gergo alla creazione del “nido”. Questa conformazione di scavo (anche solo se di assaggio) permette un’indagine stratigrafica più concreta rispetto a quanto fatto nella fase precedete riuscendo così a iniziare una effettiva e reale indagine stratigrafica riportante il materiale fossile contenuto ad uno specifico livello.

 

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Scavo a "nido"

 

Verificati dunque gli esiti dei sondaggi preliminari, la forza del pacco di strati da scavare, l’estensione stratigrafica dell’affioramento, congiuntamente alla verifica della distribuzione geografica dello stesso si potrà pianificare e procedere ad uno scavo paleontologico scientifico che già in partenza potrà avere una attesa di risultati (Vedi attività di Cassina e in parte Scheltrich). 

A questo punto dell’attività è già importante, essendo in fase di progetto, tenere in considerazione anche gli aspetti legati alla sicurezza degli operatori dello scavo e ad eventuali vincoli ambientali sul patrimonio. Il complesso di monti prealpini di cui stiamo parlando si trova tra Italia e Canton Ticino (CH), stati che tutelano il patrimonio geopaleontologico in maniera molto puntuale, gli uni attraverso la Sovrintendenza ai Beni Culturali gli altri per il tramite del Museo Cantonale di Storia Naturale di Lugano, unici enti che possono autorizzare l’attività di ricerca. Per quanto sta alle normative sulla sicurezza, le possibili variabili sono tali e le normative talmente differenti da non poter generalizzare l’argomento per entrambe le Nazioni in questa sede.

 


Storia recente degli scavi paleontologici condotti sul San Giorgio/Pravello


Come già accennato in precedenza e per esperienza diretta, è evidente come negli ultimi quindici, venti anni, la mission delle ricerche in campo paleontologico nell’area di Meride e Besano sia profondamente mutata. Questa evidenza si amplifica ulteriormente rivivendo, attraverso i racconti di chi ha vissuto direttamente le ricerche, a partire dalle campagne di scavo degli anni ’70.

Gli evidenti cambiamenti dell’impostazione dell’area di scavo nonché le tecniche di ricerca sono facilmente riconoscibili attraverso le tracce lasciate nella montagna.  Dapprima le ricerche furono orientate verso reperti particolari riconducibili ad un ben determinato interesse scientifico come nel caso degli scavi diretti da Hans Rieber, particolarmente favorevole al rinvenimento di ammonoidi e bivalvi o all’incremento di collezioni Museali destinate innanzitutto all’esposizione.
Questa evidenza è ben documentata dai metodi di scavo adottati e dalla attrezzatura utilizzata generalmente dimensionata per l’estrazione di grossi pacchi rocciosi senza una fine ricerca dei dettagli. Questa caratteristica è ancor oggi facilmente riscontrabile andando ad osservare le discariche degli scavi in località Punto 902, o più semplicemente guardando le imponenti leve usate per staccare le stratificazioni in località Sasso Caldo o Rio Ponticelli o ancora, facendosi raccontare dai “reduci” come gli strati venissero aperti con l’ausilio di picconi, cazzuole o pesanti mazzette.

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Claudio Del Prato - Scavi di Sassocaldo

 

Tale evidenza seppur possa dare la sensazione di un lavoro condotto in modo grossolano, almeno rispetto alle tecniche adottate attualmente, non può essere criticata soprattutto considerando i significativi risultati ottenuti negli anni nonché il mandato definito dai vari direttori scientifici che si sono susseguiti nel corso del tempo.


Oggi la realtà è ben diversa, un po’ per evoluzione tecnologica, un po’ per la persecuzione di intenti diversi, un po’ per la composizione degli staff di ricercatori ed infine ma non per ultimo dalla profonda sinergia tra componenti scientifici, ricercatori e tecnici che costituisco la squadra di lavoro.
Personalmente, ho avuto il privilegio di operare su tutti gli scavi condotti sui giacimenti triassici del San Giorgio negli ultimi venti anni ed ho potuto vivere questo grande momento di cambiamento nelle modalità di ricerca. Per comprendere meglio questi cambiamenti, illustrerò dunque brevemente il mio percorso personale.


Ho cominciato con gli scavi in Val Mara su versante svizzero condotti dall’Università degli Studi di Milano dove le tecniche di scavo portavano a cercare i reperti solo sulla superficie di apertura degli stati avvalendosi di “lame” di metallo, tecnica impiegata parallelamente e successivamente anche sugli scavi di Acqua del Ghiffo (CH) coordinati dall’Università di Zurigo. In Val Mara, il grosso dell’attività era portato avanti dagli studenti (io ero uno di questi), per la maggior parte appassionati e fortemente motivati, ma privi del valore aggiunto determinato dall’esperienza.
La tecnica adottata, prevedeva l’impiego di lame e spatole al fine di staccare ogni singolo foglio di roccia del pacco di calcari di Meride che stavamo indagando. In sostanza, la squadra di lavoro, disposta su di un piano inclinato, scendeva all’unisono, strato per strato staccando piccoli foglietti di roccia di circa 20 cm2 per osservarli attentamente con l’ausilio di lenti con un ingrandimento 10X e 20X sull’estradosso e sull’intradosso, nonché già sulla superfice del piano da cui la scaglia veniva staccata. Se il reperto era sul foglietto staccato si procedeva al recupero, se era sul piano ancora da scavare veniva segnalato e raccolto al passaggio successivo.

 Questa metodica ha dato sicuramente buoni risultati essendo di fatto l’unico modo utile al rinvenimento di insetti, e crostacei (esterie in particolare) e comunque tutti quei fossili privi di una struttura tale da dare spessore apprezzabile all’esemplare se “osservato in sezione”. I primi insetti fossili del San Giorgio sono di fatto emersi da questo scavo. La famosa “zanzara”, in realtà un efemerottero insieme a varie elitre e parti di coleottero. Da questo scavo sono emersi anche diversi pesci, fossili però che poi vedremo vengono trovati in quantità e qualità differente adottando un’altra metodica di ricerca. Oggi sappiamo che sulle stratificazioni del San Giorgio la maggior parte dei reperti è rinvenibile più efficacemente adottando il metodo dell’osservazione in sezione, metodo che evidenzierò tecnicamente più avanti.


Dal 2000 mi sono unito al gruppo paleontologico dei Besano che operava in località di Sasso Caldo, scavo gestito dal Museo di Storia Naturale di Milano che, a differenza degli scavi universitari sopra descritti, aveva, quanto a personale impiegato, il problema opposto, le attività infatti erano portate avanti da un gruppo di appassionati con grandi doti tecniche ed esperienziali ma forse con una più lieve sensibilità scientifica nei confronti dei ritrovamenti minori (nel senso dimensionale). Il gruppo paleontologico di Besano ha comunque portato avanti, favorito da un giacimento fertile come nessun altro che abbia avuto il piacere di scavare, con mirabile pragmaticità un lavoro duro e imponente che ha determinato un favorevole riscontro tecnico nelle successive esperienze di ricerca anche sul versante Svizzero. I reperti portati alla luce hanno certamente assolto il mandato della allora direzione scientifica che era sostanzialmente di arricchire le esposizioni museali di Milano e Besano. Nel corso degli anni ittiosauri, ticinosuchus, tanistrofei e svariati altri reperti ancor oggi in fase di studio sono stati raccolti e portati nelle collezioni museali.

 


Dal 2006 gli scavi sull’intero comprensorio, sono condotti esclusivamente dal Museo Cantonale di Storia Naturale di Lugano. L’approccio è stato sin dall’inizio molto differente rispetto alle esperienze passate, cercando di indagare gli affioramenti (in questo caso parliamo della Formazione di Cassina) rispetto ad ogni potenzialità, ricercando organismi di qualsiasi genere, non solo grossi esemplari con un riscontro mediatico importante, ma tutto quell’insieme di essere viventi costituenti il pleoambiente triassico del giacimento.
Congiuntamente con la consueta ricerca di nuove specie, le ricerche hanno portato anche alla scoperta delle particolarità tafonomiche del giacimento che hanno permesso di conservare i reperti in modo cosi straordinario, un aspetto che in precedenza non era stato sufficientemente approfondito che lasciava aperti diversi dubbi riguardo le peculiarità conservative dei reperti di questo straordinario giacimento.
La scelta della direzione scientifica in seguito e attualmente è stata anche quella di ricercare nuovi affioramenti e sondare stratificazioni mai indagate in precedenza. Scelta azzardata ma che ha portato a risultati incredibili come il rinvenimento di esemplari di tisanuri ancestrali, di gamberi e altri crostacei mai descritti prima così come l’evidenza di una concreta variabilità di specie vegetali (in precedenza solo il genere voltzia era stato ufficialmente descritto).
Oggi, dopo l’importante esperienza di Cassina, i sondaggi condotti in località Costa e Val Mara, l’attenzione si è concentrata sul sottile affioramento di Scheltrich che da promettente si è trasformato in sorprendente per la densità, qualità e variabilità dei reperti che cela.


Le attuali metodiche di scavo

Ora, fatta una rapida carrellata sugli ultimi scavi eseguiti, evidenziata l’evoluzione delle tecniche adottate, soffermiamoci sull’attuale metodica e procedura per la ricerca del materiale paleontologico celato tra le stratificazioni del San Giorgio.
Parlando di lamine di roccia, la prima attività da svolgere è quella di liberare la massima quota di superficie di sedimento per riuscire a seguire le fratture naturali dello strato.

Si potrà ora iniziare a sollevare le stratificazioni avendo cura di raccogliere la massima superficie disponibile e cercando per quanto dimensionatemene possibile di non creare nuove linee di frattura fresche seguendo quelle naturali che precedentemente avevamo portato alla luce. Bisognerà qui stare attenti a non prelevare un pacchetto di strati superiore a quello oggetto d’indagine al fine di non confondere la stratigrafia già censita. In sostanza occorre prestare particolare attenzione nello spessore delle stratificazioni sollevate dalla giacitura.

Occorre però fare una ulteriore precisazione, l’indagine stratigrafica segue per tutta la durata delle ricerche lo scavo andando a censire in modo puntuale i pacchetti di strati che inizieremo a numerare (e da qui i numeri di riferimento che spesso appaiono sui fronti di scavo). L’attenta descrizione del pacchetto, annotata dapprima sul giornale di scavo (strumento indispensabile) e poi sulla stratigrafia ufficiale del giacimento servirà per orientare correttamente lo strato in indagine ed in seguito poter correlare con sufficiente precisione indagini condotte in altri siti omologhi. Alzato dunque il pacco di strati è bene osservare con attenzione la superficie sia sull’estradosso che sull’intradosso della lastra per verificare innanzitutto se vi siano reperti proprio sulla parte esterna della lastra cercando anche se delle protuberanze lascino presumere un contenuto interno ancora celato dal velo di roccia, un po’ come cercare di capire dove sia l’uovo guardando la sfoglia di pasta superficiale su di una torta di Pasqua.

Per eseguire adeguatamente tale fase di lavoro occorre innanzitutto cercare una buona illuminazione tenendo presente che l’ideale è la luce del sole ma che spesso, lavorando nel bosco occorrerà predisporre idonee fonti di illuminazione artificiale. Inoltre è buona norma non affidarsi unicamente alla vista in quanto può capitare che le lastre siano semplicemente sporche o più semplicemente che l’umidità della lastra sia tale da non far risaltare il disturbo superficiale, in questo caso passare la mano sulla latra potrebbe aiutare a percepire eventuali disomogeneità.

Tornando alla nostra lastra, dovremo a questo punto procedere rompendola perpendicolarmente alle stratificazioni. Ricordiamoci, ogni volta che procederemo a spezzare la lastra, di mantenerne una mappatura della stessa. Dire in quale modo non è semplice, in quanto tecnicamente vi sono diverse modalità. Di norma si può mantenere la lastra il più possibile in connessione riposizionando i frammenti nella posizione di giacitura, oppure contrassegnare preliminarmente alla frantumazione gli strati con delle tracce di gesso, oppure creare delle pile di materiale distinguendole per prossimità tra di loro; la cosa importante è non allontanare immediatamente il materiale già controllato in quanto a causa della spessimetria del fossile, un reperto potrebbe essere visibile solo se osservato con particolare accuratezza partendo da un’analisi di uno strato limitrofo dove risulti più visibile.

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Il Dott. Luca  Zulliger durante il lavoro di "riposizionamento" di una lastra

 

Dicendo questo ho anticipato la metodica di osservazione. Se in precedenza abbiamo provveduto a verificare la superficie ora osserveremo gli strati in sezione ricercando in questa posizione la presenza di discontinuità o disomogeneità.
Questa metodica agli occhi dell’esperto rivela la maggior parte dei reperti che abbiano uno spessore apprezzabile, sia vertebrati che vegetali che invertebrati e conoscendo la struttura degli stessi e la forma di fossilizzazione è possibile anche capire in modo approssimativo il gruppo al quale il reperto appartiene finanche talvolta il genere.
Rinvenuta la sezione del fossile occorrerà provvedere alla ricomposizione di tutto l’esemplare andando a montare lunghi e complessi puzzle tridimensionali determinando sommariamente l’estensione della superficie da ricomporre da una stimata dimensione dell’esemplare.

 Dopo l’osservazione in sezione prima di allontanare gli sfridi di lavorazione è bene cercare di scollare tutti i singoli strati componenti i vari pacchetti per cercare tutti quei reperti aventi una sezione irrisoria come le impronte di bivalvi, piccoli crostacei, insetti e parti appendicolari di piante. Fatto questo passaggio è possibile conferire il materiale in discarica avendo l’accortezza di accumularlo in gruppi omogenei sino al completamento del livello in indagine.
Infine, è importante considerare che gli scavi scientifici vengono condotti da un gruppo di operatori che deve muoversi in perfetta sinergia. Il mancato coordinamento del lavoro potrebbe portare a risultati disastrosi. La linea di contatto tra le superfici gestite dai singoli tecnici deve essere ben nota in modo da non andare a sovrapporsi l’un l’altro anche in ragione della specificità e professionalità del singolo ricercatore che può adottare una tecnica non completamente compatibile con quella del collega.


Infine, è importante che le parti di lamina rocciosa di confine non vengano allontanate sino al completamento del lavoro da parte del “vicino di scavo” in quanto egli potrebbe vedere quanto voi non avete notato.

 


La strumentazione

Per vedere i reperti, se una volta ci si avvaleva di semplici lenti a dieci o venti ingrandimenti, oggi ci si può affidare ad una strumentazione più comoda o nel caso, più potente. La prima verifica si effettua generalmente con degli stereoscopi con un ingrandimento piuttosto limitato ma che all’ingrandimento ottico abbinano la possibilità di avere una visione d’insieme della superficie delle lastre; altro vantaggio è l’aspetto ergonomico che li posiziona alla giusta distanza dagli occhi permettendo altresì di avere le mani libere per gestire al meglio il campione. Se quanto si vede risulta d’interesse allora si può utilizzare una lente a maggior ingrandimento o uno stereo microscopio da geologia che può confermare o smentire quanto visto con ausili di potenza inferiore.

 

Per l’illuminazione, trovandoci in luoghi generalmente bui, come sopra accennavo, si è passati da un’illuminazione ambientale a presidi di illuminazione localizzata come ad esempio lampade frontali che possono superare i 5000 lumen. In questo caso è importante considerare il calore sprigionato dalle fonti luminose per evitare la repentina quanto inopportuna disidratazione delle stratificazioni che può addirittura determinare una deformazione della matrice con perdita di parti di reperto (capita che dei denti vengano addirittura espulsi dalla matrice o dei vegetali si polverizzino per via delle deformazioni repentine). Per reperti più particolari si impiegano anche lampade IR che mettono in risalto le tracce fosfatiche derivanti dall’alterazione della sostanza organica trasformata.

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Nel capitolo precedente ho introdotto anche l’importanza del diario di scavo, ecco, questo strumento che non può assolutamente mancare su un’area di scavo, sarà fondamentale una volta rientrati in laboratorio per ricomporre con esattezza i reperti ma anche per conservare altre informazioni utili a valutazioni di diverso genere. A titolo esemplificativo, uno dei dati che vengono raccolti e conservati, è la giacitura dei livelli e l’orientamento dei fossili in loco, questo parametro permetterà in seconda analisi di evidenziare ad esempio, l’eventuale presenza di correnti sottomarine.

 

 


Visibilità dei reperti


Tante, sono le varianti che influiscono con la visibilità di un reperto, oltre a quanto già evidenziato parlando di metodica di scavo, bisognerebbe introdurre delle basi di tafonomia, biostratinomia e fossilizzazione per comprendere come il medesimo organismo possa presentarsi come sola impronta, come cavo e riempito da cristalli di calcite, come lamina carboniosa, ecc. In realtà, dal punto di vista pratico, tutti questi sono aspetti che soprattutto l’esperienza ci insegna a gestire rispetto all’ecletticità delle possibili forme in cui un fossile ci si può presentare. In questa ottica, dando per scontato che all’inizio dell’attività di scavo ogni ricercatore abbia la possibilità di fare un po’ di affiancamento sul campo, quello che può essere più efficace è il comprendere quali siano i più comuni e periodici rinvenimenti “pseudo-fossiliferi” che possono portare alla raccolta di materiale inutile o all’eccessivo zelo nell’individuazione di un reperto.

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Avevo in precedenza accennato all’umidità della lastra, contingenza comune al momento dell’estrazione. Ecco, la stessa umidità che durante la stagione estiva semplicemente può far risaltare o disturbare la visione superficiale della lastra, in inverno può essere un serio inconveniente nel momento in cui sotto gli zero gradi la superficie bagnata della lastra cristallizza in ghiaccio, creando un velo che può produrre effetti ottici veramente scomodi, come la ramificazione di cristalli di ghiaccio che può formarsi e può talvolta sembrare di origine organica. Questo fenomeno non è evitabile se non scegliendo una stagione di scavo diversa o determinando in altro modo condizioni temoigrometriche più favorevoli.


Esistono poi dei comuni fenomeni di origine mineralogica, che in particolare creano sorpresa nei neofiti come i dentriti e gli stiloliti. I primi sono ossidi minerali, comunemente parliamo di ossidi e idrossidi di Manganese, Ferro e Stronzio con un tipico accrescimento ramificato che assume una forma molto simile a quella di un vegetale. L’errore indotto è comune in chiunque si avvicini per la prima volta alla ricerca di fossili sul campo. Per i fossili del San Giorgio l’errore può presentarsi, visto che la frequenza non è così alta, anche per ricercatori un po’ più esperti.

 

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Esempi di dendriti sul Monte San Giorgio


Anche le stiloliti sono strutture di origine minerale ma con genesi del tutto differente. Si tratta infatti di fratture che possono presentarsi nelle rocce sedimentarie. Le stiloliti visivamente appaiono come linee a zig zag con internamente inspessimenti generalmente minerali, a colpo d’occhio possono sembrare talvolta cristalli di tormalina. La struttura minerale osservata anche con notevole ingrandimento, in superficie può sembrare un reperto osseo soprattutto se si stanno cercando fini ossa di pesce o rostri di Saurycthys.
Fortunatamente le stiloliti attraversano le stratificazioni sedimentarie (a differenza di un fossile che giace sullo strato di deposizione); pertanto se il fenomeno viene osservato in sezione o più semplicemente si ripropone sul piano successivo si può facilmente diagnosticare la presenza di questo pseudo-fossile.

 


Conclusioni


L’attività di scavo sul complesso San Giorgio/Orsa, Pravello è da sempre fonte di stupore per la qualità e la quantità di fossili che preserva. Il passare del tempo ha portato le metodiche di scavo e ricerca, durante la storia recente, ad una evoluzione tale da offrire nuove frontiere ai ricercatori oggi impegnati in tutto il processo che parte dall’estrazione del reperto, passando per la preparazione e finendo con lo studio e l’esposizione.
Oggi possiamo rivedere “i mari triassici dei nostri monti” con nuovi occhi, osservando il complesso sistema paleoambientale e andando a capire le relazioni tra gli organismi dai più microscopici ai più grandi, comprendiamo finalmente il perché questo formidabile patrimonio sia giunto sino a noi e chissà quante cose potranno ancora meravigliarci in futuro.
Alcuni anni fa qualcuno mi ha detto “Vedi, dobbiamo chiudere gli scavi perché abbiamo troppo materiale in magazzino”, ritengo che, per una località come il San Giorgio, sia una affermazione piuttosto sconveniente soprattutto perché è sempre possibile gestire il metro di scavo in rapporto a quello che si vuole raccogliere in proporzione alle esigenze di studio. Quello che tecnicamente resta comunque fondamentale, è riuscire a dare continuità nella ricerca. La sospensione delle attività di scavo determina il venir meno della memoria, dell’esperienza accumulata dai singoli in anni di crescita personale, rischiando di interrompere il passaggio staffetta che sarebbe grave ed assurdo per il futuro qualitativo della ricerca.

 

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© Sergio Pezzoli 2016